Agamennone: Sinossi e struttura

Sul tetto della reggia di Argo, una sentinella collocata dalla regina Clitennestra, la “donna che ha volontà virile” (v.11), attende da un anno il segnale che annunci la fine vittoriosa della guerra di Troia e il ritorno del re Agamennone. Il segnale finalmente arriva, e la sentinella lo accoglie con gioia, ma l’affetto per il suo signore si mescola a una reticente preoccupazione su ciò che accade nella casa.
Entra il Coro, composto di vecchi Argivi, rievocando negli anapesti l’inizio della guerra: dieci anni prima, Agamennone e Menelao sono partiti alla testa dell’armata greca per vendicare il ratto di Elena, compiuto da Paride in violazione dei diritti dell’ospitalità, una privazione simile a quella degli avvoltoi cui hanno rubato nel nido i loro piccoli. La spedizione è voluta da Zeus nella sua specifica funzione di garante dell’ospitalità (Xenios). Loro, già vecchi dieci anni prima, sono rimasti malinconicamente in patria, e adesso si chiedono cosa significano i sacrifici che Clitennestra ha ordinato per tutta la città. La parte lirica della parodo rievoca il presagio inaugurale della guerra: due aquile (simbolo delle regalità dei due figli di Atreo) sbranano una lepre gravida (simbolo della città di Troia e delle vite che essa contiene). Il presagio è dunque favorevole, ma Artemide, la dea che ama la natura e la vita in tutti gli animali, s’indigna per il “banchetto delle aquile” (v.137), e per dare via libera alla spedizione richiede, attraverso il profeta Calcante, il sacrificio della giovane figlia di Agamennone, Ifigenia: un atto che allontanerà per sempre l’animo di Clitennestra dal marito.
Prima della rievocazione del sacrificio il Coro invoca Zeus, che dopo le vicende e i conflitti della storia sacra governa il mondo sulla base della legge che “nella sofferenza sta la conoscenza” (v.177): è questa la “grazia violenta” (v.182) degli Dei. Quando i venti mandati da Artemide misero i Greci in una penosissima situazione, Agamennone si trovò a compiere una scelta fra due mali: o “tradire l’alleanza e lasciare la flotta” (vv.212-3), o contaminarsi con l’uccisione della sua primogenita, tradendo i valori dell’affetto familiare e delle dolci consuetudini del passato. La scelta con cui Agamennone “piegò la fronte al giogo della necessità” è definita “sacrilega, empia, impura” (vv.218-20). Le profezie di Calcante non sono vane (v.249); tuttavia il Coro si augura che possa prevalere il bene, secondo il ritornello che scandisce la parodo.
Entra Clitennestra a dare la grande notizia della vittoria, e la avvalora descrivendo minuziosamente il percorso del segnale luminoso partito dalla vetta dell’Ida. Descrive poi, con grande potenza immaginativa la città conquistata, temperando il trionfo con l’ammonimento ai vincitori di rispettare gli dei e i santuari dei vinti.
Il Coro canta la giusta vittoria di Zeus Xenios: essa mostra come gli dei non lascino impunita la colpa dell’uomo che la cattiva persuasione forza a fare il male; sono rievocate la colpa di Paride e la fuga di Elena, che lasciò dolore profondo a Menelao, ma anche dolore diffuso tra i Greci che piangono i loro cari morti in guerra; su chi è causa della morte di molte persone (polyktonoi, v.461) gli dei tengono il loro sguardo severo. Per sé il Coro si augura una prosperità modesta, senza essere né vinto né vincitore. Giunge l’araldo di Agamennone, a salutare con affetto la patria e a celebrare con entusiasmo la vittoria, che anch’egli riporta alla giustizia di Zeus (ma i templi dei vinti sono stati distrutti!), e il ritorno del re vincitore; poi descrive gli infiniti disagi della guerra, e, dopo che Clitennestra lo ha incaricato di portare ad Agamennone il suo benvenuto, narra di una disastrosa tempesta che si è abbattuta sulla flotta greca: neppure di Menelao si hanno più notizie.
Il Coro adesso torna a cantare la colpa fatale di Elena, che portò a compimento il destino del suo nome (interpretato come “rovina delle navi”): la sua fuga portò a Troia sulle sue tracce i vendicatori dell’offesa fatta all’ospitalità. Come un cucciolo di leone sembra tenero e carezzevole prima di svelare la sua natura sanguinaria, così il fascino di Elena si tramutò in feroce rovina per i Troiani. Perché, in questo caso, come sempre, è stata la colpa a generare la rovina, non la prosperità in quanto tale, come per lo più si crede: è vero tuttavia che spesso i palazzi dorati sono insozzati dalle azioni degli uomini, mentre “la giustizia splende nei casolari fumosi” (vv.772-3).
Il Coro adesso si rivolge al reduce Agamennone, proponendosi di rendergli l’onore che gli spetta, senza l’ipocrisia così diffusa nei rapporti umani: ammette di avere avuto forti riserve sulla spedizione, ma ora prende atto che l’impresa è stata felicemente compiuta.
Agamennone saluta per prima cosa la città e gli dei, che hanno riconosciuto la ragione dei Greci e sono stati suoi alleati (metaitius, v.811) nella presa di Troia. Concorda sul fatto che è rara la vera amicizia, priva di invidia: lui stesso ha avuto soltanto Odisseo come vero amico.
Parla ora Clitennestra, dichiarando senza nessun ritegno l’amore per lo sposo e l’infelicità della sua esistenza senza di lui, esposta alle false notizie della sua morte, che l’hanno più volte portata alla disperazione. Dopo avergli detto che il loro figlio Oreste è stato mandato nella Focide, perché il clima politico di Argo è stato giudicato insicuro, nell’ipotesi di una sconfitta di Agamennone, Clitennestra fa esplodere la sua gioia, che è quella di chi ritrova “il cane da guardia del gregge, la gomena che assicura la nave, la colonna che sostiene il tetto, il figlio unico per il padre, la terra che appare insperata ai naviganti, la luce dolcissima dopo la tempesta, l’acqua di fonte per il viandante assetato” (vv.896-901). Invita infine Agamennone a scendere dal carro e ad entrare in casa camminando sul prezioso tappeto di porpora che lei gli ha apprestato. Il colore suggerisce una parentela simbolica col sangue, e l’assicurazione di Clitennestra, che “il resto lo sistemerà secondo giustizia un pensiero che non dorme” (vv.912-3) ha addirittura un doppio livello di ironia tragica: allude naturalmente all’assassinio che lei stessa sta tramando, ma un termine generico come “il resto” si estende minacciosamente nel tempo, fino a includere, oltre il sapere di Clitennestra, la vendetta che colpirà lei stessa.
Agamennone rifiuta l’invito: il tappeto di porpora è un onore adatto agli Dei, e lo spreco, anche simbolico, di ricchezza che esso comporta susciterebbe il biasimo della collettività. Clitennestra insiste, e Agamennone, pur non persuaso, la compiace, togliendosi tuttavia i calzari prima di calpestare la porpora, e raccomandando a Clitennestra di accogliere benevolmente Cassandra, la profetessa che l’esercito gli ha assegnato come preda di guerra.
Dopo che il Coro ha cantato il suo triste presentimento, sentendo risuonare dentro di sé il lugubre canto delle Erinni (vv.990-1), torna Clitennestra per esortare Cassandra a entrare nel palazzo: Cassandra tace ostinatamente, e solo quando la regina è uscita intona un canto disperato: accusa Apollo (il cui nome viene interpretato come “colui che distrugge”) di averla mandata a una casa che è “un mattatoio di uomini” (v.1091) Poi nei suoi lamenti trascorre un’immagine del passato, quella dei figli di Tieste uccisi e dati in pasto al padre da Atreo, il padre di Agamennone; poi quella di una donna che uccide il marito nel bagno tendendogli “una rete di morte” (v.1115). Anche lei stessa, Cassandra, così come è morta ineluttabilmente la sua città, sarà vittima di una scure.
Solo quest’ultimo punto è chiaro ai vecchi del Coro, ma adesso Cassandra passa a profetizzare nel linguaggio aperto e razionale dei trimetri giambici: spiega al Coro che Apollo, innamorato di lei, le ha concesso il dono della profezia, ma per punirla di aver rifiutato il suo amore ha fatto sì che le sue profezie restassero inascoltate. Poi ricorda il destino coerente e sistematico della casa degli Atridi, a partire dalla prima colpa, quella di Tieste: come Paride, egli violò il letto di un altro uomo, di Atreo, che si vendicò con l’orribile banchetto. Anche il letto di Agamennone è stato violato in sua assenza da Egisto, l’altro figlio di Tieste, che mira a vendicare il padre e i fratelli.
Infine, Cassandra si strappa di dosso le insegne della sua funzione profetica che non sono in grado di controbattere il male; ma prima di accettare la fine che le incombe vaticina che la morte di Agamennone, e anche la sua, saranno vendicate: Clitennestra ed Egisto verranno uccisi da Oreste.
Colpito, il Coro commenta le vicende degli Atridi come emblematiche del rovesciamento della felicità umana, poi, ascoltando in lontanaza il grido di Agamennone colpito a morte, la sua voce si frantuma in quelle dei singoli coreuti, che nel loro dissenso sul che fare testimoniano tristemente la comune impotenza. Torna infatti in scena Clitennestra, a vantare l’omicido compiuto come opera giusta (v.1406), ma prima ancora a giustificare la frode del falso amore prima pubblicamente manifestato come il solo modo per avere la meglio sul suo nemico. Racconta le modalità dell’assassinio, godendo del sangue versato, “come gode della rugiada di Zeus il germoglio in fiore delle spighe” (vv.1391-2). Al Coro che la minaccia dell’esilio, Clitennestra rinfaccia di non essersi opposto alla morte di Ifgenia, e li sfida a contrastarla sul piano della forza: dalla sua sta Egisto. Aggiunge parole di disprezzo per la morta Cassandra, con ciò accusando a sua volta Agamennone di infedeltà (già nell’Iliade 1.113-5 Agamennone dichiarava di preferire a Clitennestra la schiava di guerra Criseide).
Il Coro equipara Clitennestra alla sorella Elena, causa di tante sciagure, e chiama in causa il demone degli Atridi che opera attraverso le due donne; in risposta Clitennestra, come già Cassandra, estende l’azione del demone fino alla cena di Tieste: è l’alastor punitore di quell’orribile fatto che ha assunto se sembianze della moglie di Agamennone. Il Coro si preoccupa di negare che Clitennestra possa per questa via essere esentata dalla responsabilità dei suoi atti, concedendo peraltro che l’alastor possa essere stato suo complice; poi, sgomento e confuso, si chiede chi potrà rendere gli onori funebri ad Agamennone, visto che lo hanno ucciso i suoi philoi, e Clitennestra ha una terribile risposta: sarà sua figlia Ifigenia ad accoglierlo affettuosamente nell’Ade.
Ma se Agamennone – insiste il Coro – è morto in ossequio al principio che “chi ha fatto del male lo patisce” (v.1564), chi potrà arrestare la catena dei delitti fra consanguinei? Un compromesso col demone, risponde Clitennestra: pur che si arresti qui la sua azione, è pronta ad accontentarsi di “una piccola parte di questi beni”, nella stessa ottica riduttiva espressa precedentemente dal Coro (vv.1008-14). Ma la violenza del dialogo è estremizzata dall’arrivo di Egisto, che celebra trionfalmente la sua vittoria e la sua giustizia, la realizzazione cioè della maledizione che Tieste lanciò agli Atridi nell’orribile cena. Il Coro lo rintuzza duramente, accusandolo di vigliaccheria per non avere partecipato alla guerra e non aver neppure compiuto di persona l’assassinio, e lo minaccia della vendetta di Oreste. Egisto ribatte con violenza tirannica, ma Clitennestra smorza il conflitto: “c’è già abbastanza dolore” (v.1656).
Agamennone rappresenta in forma complessa e sontuosa il grande tema della distruzione di un uomo, un eroe omerico, sviscerandolo nella pluralità delle sue motivazioni. Prima di tutto, Agamennone è il figlio di Atreo, e grazie al principio della solidarietà del ghenos deve rispondere del crimine che suo padre ha compiuto contro il fratello, e non ha espiato: è vero che questo crimine ripagava e puniva il crimine di Tieste, ma a parte il fatto che l’orrore della vendetta è stato inaudito e proverbiale, la norma interpretativa che Eschilo adotta per la faida è che ogni gesto di essa ha una doppia valenza: è sempre legittimato o addirittura doveroso come risposta; è sempre ingiustificabile in sé, e come tale si proietta nel futuro, reclamando una risposta-punizione che avrà le sue stesse caratteristiche, e costruendo così una catena potenzialmente estesa all’infinito. La fase tiestea della saga entra a costruire la vicenda viva della tragedia attraverso la straordinaria rappresentazione della profezia di Cassandra, per la quale passato, presente e futuro sono dotati della stessa attualità esperienziale, ottenendo come risultato il paradosso che il tempo religioso, fermo o ciclico, acquista valenze drammatiche per la sua capacità di occupare il presente con le visioni e le fobie.
Ma a differenza di Eteocle, Agamennone paga anche colpe sue proprie, che vengono esplorate nelle pieghe di una concezione ambigua della guerra, quella che già si proponeva come dilemma al Pelasgo delle Supplici, e che Eschilo sa leggere anche sotto il mito superficiale della vittoria: la guerra di Troia è sacrosanta perchè conforme ai valori rappresentati da Zeus Xenios (come quella contro gli Egizi era conforme alla funzione parallela, e addirittura in parte sovrapponibile, di Zeus Aphiktor), ma contemporaneamente è fonte di lutti e angosce che costituiscono un peso e una responsabilizzazione sociale insopportabile, al punto che la stessa nobiltà delle motivazioni ne viene erosa. Infatti il rischio di “insanguinare la pianura a causa di donne” (Supplici 477) si colora nell’Agamennone di una connotazione ostile, anche sotto l’influsso dell’Achille iliadico (9.327), quando parla dei morti “per la donna di un altro” (448-9), e per di più una donna spregevole, oggetto di insistite condanne. Inoltre, la mitologia dell’aretè si tinge di nero nella distruzione dei templi di Troia (la stessa trasgressione dei Persiani di Serse!), nelle sofferenze quotidiane della guerra che inficiano ex ante la vittoria, nel naufragio che la vanifica ex post, come lampeggiava già da alcune situazioni nell’Odissea.
Ma ciò che qualifica in senso tragico l’esperienza di Agamennone è naturalmente il fatto che l’atrocità sociale della guerra, attraverso la condanna di Artemide, si tramuta per lui in atrocità personale e familiare, rompendo una volta per tutte i legami primari dell’affettività.
Come la profezia di Cassandra, la splendida parodo riporta all’attualità il passato, ma stavolta il passato individuale, fissando così la sua natura indimenticabile, decisiva e fondante per l’evento centrale della tragedia. Eschilo non pone alla base dell’ira di Artemide una trasgressione specifica di Agamennone, che secondo una leggenda registrata nell’Elettra di Sofocle (vv.566-72), avrebbe ucciso un cervo sacro alla dea; ma questa scelta drammaturgica non implica affatto una deresponsabilizzazione del protagonista, quanto al contrario sostituisce alla colpa accidentale quella essenziale di farsi polyktonos, uccisore di molte persone. Necessaria alla guerra e dunque al piano di Zeus Xenios contro Paride e i Troiani, l’uccisione di Ifigenia richiede comunque un’altra scelta e un’altra colpa di Agamennone: sul piano delle relazioni umane è infatti arbitrario sostenere che un comportamento diverso fosse impossibile, come lo sosterrà l’Agamennone dell’Ifigenia in Aulide euripidea, al termine di un percorso travagliato che mette in luce non la prava volontà, ma l’irrimediabile debolezza dell’eroe, che in Euripide può essere così definito soltanto ironicamente. Ma qualcosa di non molto diverso lascia intravvedere l’Agamennone di Eschilo, che a sacrificare Ifigenia arriva cambiando la propria posizione (metegno, v.221), e che anche nel dialogo con Clitennestra a proposito del tappeto di porpora non riesce a sostenere fino in fondo un’opinione giusta e saggia. S’intende bene che, per quanto perdente, essa gli assicura la simpatia dello spettatore, e tanto meno si può dire che calpestando la porpora egli commetta l’atto di hybris che giustifica definitivamente la sua rovina: l’hybris, eccesso di affermazione e di volontà, non appartiene ad Agamennone (che deve piuttosto rispondere del suo contrario), ma alla sua antagonista, Clitennestra: le appartiene già subito, con la cifra di una caratterizzazione complessiva, quando di lei si dice che usurpa la dimensione e gli atteggiamenti della virilità.
Clitennestra rappresenta non solo un momento di eccezionale caratterizzazione in Eschilo, ma l’ancora più eccezionale esperienza di un personaggio moralmente negativo che, contro la prescrizione di Aristotele, Poetica 1454 a 17, accentra su di sé l’attenzione dello spettatore, anziché limitarsi a fornire un contraltare funzionale agli eroi positivi. Inoltre, mentre la negatività morale di Serse dipendeva da un difetto conoscitivo, secondo uno schema intellettualistico che verrà esplicitato e perfezionato da Socrate, ciò che fa di Clitennestra una gigantesca ipostasi del male è il dominio consapevole di sè e degli altri, e l’alleanza funzionale delle energie umane, passione e ragione: in questo le terrà dietro una donna che le somiglia, ma nei cui confronti è libera di esercitarsi la simpatia, pure sgomenta, dello spettatore, Medea di Euripide. È la ragione, cioè l’inganno astuto, che permette a Clitennestra non solo di soddisfare la sua passione, l’odio irriducibile nato in lei dall’amore materno, ma, prima ancora, di esprimerla superando ogni divieto sociale: fingendo infatti l’amore di una sposa devota, Clitennestra comunica un linguaggio dove è autentica, col segno cambiato, la magnitudine assoluta dell’emozione. È vero che ha pianto, sperato e temuto, ma ha sperato ciò che dice di aver temuto, la morte di Agamennone accarezzata già prima di realizzarla, con la medesima voluttà.

Prologo (vv.1-39)

La scena rappresenta la piazza d’Argo, in fondo alla quale sorge il palazzo di Agamennone. E’notte; una scolta sdraiata sul tetto, lottando con il sonno e con la noia (già da un anno adempie a questo ufficio imposto da Clitnnestra) osserva se mai dal monte Aracneo risplenda il segnale della presa di Troia: una successione di fuochi, collocati convenientemente su loghi elevati, doveva in modo rapido annunziare dal monte Ida ad Argo l’eccidio della città di Priamo. E’ un uomo stanco, che prega per la propria pace e perché la Casa che gli serve sia liberata dalla maledizione che su essa incombe. Per star sveglio canta, ma il suo canto si trasforma in lamento sulle sorti della casa di Atreo. Improvvisamente, non appena ha invocato la liberazione da tanto dolore, vede risplendere la fiamma annunciatrice: le tenebre sono state squarciate, le lacrime si sono trasformate in gioia. La scolta vola a portare a Clitennestra l’annuncio.

Parodo (vv.40-257)

Nasce il giorno e una schiera di vecchi argivi giunge presso la reggia per salutare Clitennestra, rievocando le vicende del passate: gli inizi della spedizione, gli auguri apparsi sulle case degli Atridi, i venti contrari che ritardarono in Aulide la navigazione verso Troia, il sacrificio di Ifigenia, figlia di Agamennone e Clitennestra, imposto dalla dea Artemide e compiuto da Agamennone. L’animo del Coro ondeggia tra speranza e timore e, quasi ossessivamente, si augura che il bene trionfi.
La parodo fa da sfondo alla prima apparizione della regina.
Clitennestra esce dalla reggia per fare sacrifici sulle are davanti alle porte; nel frattempo il Coro di vecchi argivi, ancora pensando a Paride, afferma quanto sia inutile il sacrificio del peccatore. Loro, troppo vecchi per combattere, furono lasciati a casa, deboli alla stregua di fanciulli o di larve nei sogni, che vadano errando alla luce del giorno.
La regina lascia silenziosamente la scena e si avvia verso gli altari della città: è ancora “muta persona”, bisognerà aspettare per sentire la sua voce.
Se i vecchi sono troppo avanti in età per combattere, non sono troppo vecchi per cantare; e cantando ricordano quanto videro in cielo il giorno dalla partenza degli eroi argivi, e l’interpretazione datane dall’augure.
Apparvero due aquile che divorarono una lepre gravida di prole. Le aquile raffiguravano gli Atridi e la lepre raffigurava Troia, destinata a cadere il decimo anno dopo l’inizio della guerra, così come la lepre partorisce al decimo mese di gravidanza.
Ma Artemide, che presiede alle nascite e protegge le bestie, è irata e chiede, per essere placata, un altro sacrificio.
A questo punto la narrazione, che scorreva fluida, è interrotta da una lenta e grave meditazione sulla sovranità, sull’autorevolezza di Zeus, che ha imposto agi uomini la legge di “soffrire per diventare saggi”. Quando riprende il racconto degli avvenimenti, il ritmo si fa più concitato e teso. Soffia la tempesta, Agamennone esita, la flotta va in rovina, le Dea persiste nella sua ira, fino a che, senza mettere in discussione l’autorità dell’augure, il Re è indotto dall’ambizione e dal desiderio di comando a uccidere la propria creatura, la figlia Ifigenia.

I Episodio (vv.258-354)

Mentre il Coro pronuncia le ultime parole, Clitennestra giunge di nuovo sulla soglia del palazzo. Il Coro chiede ancora se vi siano notizie. Questa volta le regina risponde annunciando ai vecchi di Argo la caduta di Troia; dieci anni di dolore represso per la sua creatura si riflettono nelle sue parole. Poi, prorompe in una esplosione di retorica, per narrare come il messaggio della vittoria sia stato trasmesso da una fiaccola all’altra attraverso l’Egeo. Come il sole, o come la luna, o come una caudata cometa, la luce s’alza al di fuori delle tenebre, e mentre si trasmette da una cima all’altra, sembra mutare aspetto, e piomba infine sul tetto della reggia come un fulmine.
Poi, con un accento più cupo, la regina descrive quanto ella immagina sia avvenuto a Troia. I prigionieri piangono la morte dei loro cari, i conquistatori riposano.
La regina chiude sperando che l’esercito Acheo rispetti almeno la santità dei templi.

I Stasimo (vv.681-782)

Uscita di scena la regina, il Coro inizia un gioioso inno di ringraziamento agli Dei e commenta la colpa di Paride giustamente colpito dagli dei; rievoca la fuga di Elena, causa di tanti mali, e con essa il dolore di Menelao. Ma l’inno si chiude con parole di preoccupazione per Agamennone: gli dei non lasciano impunito chi è causa di tante morti.Iniziato con un ringraziamento per il trionfo del signore di Argo, lo stasimo passa gradatamente attraverso tutte le fasi dell’apprensione, fino all’angoscia più profonda. Se Paride è il punto di partenza di questo canto corale, l’attenzione si sposta su Agamennone e su un tema ricorrente di tutta la trilogia: il pericolo che si accompagna alla prosperità.

II Episodio (vv.489-680)

Entra in scena l’araldo Taltibio che, dopo aver salutato il sorgere del sole in un’estasi di gioia, rievoca le vicende della guerra, la gloria dell’esercito, ma anche il dolore e le fatiche subite, le sorti dei compagni che non hanno fatto ritorno.
Taltibio definisce Agamennone fortunato (eudaimon), non curandosi, l’araldo, di quanto ammoniva il detto popolare: nessuno può ritenersi fortunato fino al momento della morte.
Clitennestra ascolta in silenzio questa lunga narrazione, mostra di partecipare alla gioia dell’araldo ma nello stesso tempo lo congeda, invitandolo a sollecitare l’arrivo del marito, che lei vuole accogliere di persona.
Sollecitato dal Coro, prima di uscire di scena, Taltibio parla di Menelao e racconta della tempesta orribile che ha disperso molti greci sulla via del ritorno.

II stasimo (vv.681-809)

Rimasto solo, di nuovo e con sempre maggiore insistenza, il Coro ritorna ai suoi pensieri lugubri, ritorna lo spettro di Elena, della sua bellezza maledetta, causa di tante sciagure.

III episodio (vv.783-974)

Agamennone giunge sul cocchio regale alla testa di una processione trionfale; seguito da un altro cocchio in cui siede la schiava Cassandra. Al saluto dei vecchi, il re risponde evocando uno dei temi fondamentali dell’Orestea: la giustizia (il tema, già evocato del Coro, si trasferisce ora dall’orchestra alla scena, dai vecchi argivi ai protagonisti). Agamennone ringrazia gi dei e si compiace della punizione fatta subire ai Troiani.
Ora a parlare è Clitennestra, che, con enfatiche, ipocrite parole racconta le pene provate in lunghe veglie notturne, le attese consumate nella speranza di scorgere il segnale della vittoria, le ansie per il figlio Oreste…
In un crescendo di adulazioni nei confronti del marito, Clitennestra ordina alle ancelle di stendere tappeti purpurei sotto i piedi del suo signore e pronuncia parole di straordinaria doppiezza che, nel celebrare Agamennone, alludono in realtà al destino di morte che lo attende: “appaia, presto, un passaggio dal fondo scarlatto: Giustizia, lo guidi verso una dimora inattesa”.
Con fredda formalità il re ascolta l’invito, e inizialmente respinge l’atto di omaggio. Poi cede dinanzi alle insistenze della regina, ordina che gli siano sciolti i calzari e infine, prima di fare ingresso nel palazzo, rivolge l’attenzione sulla prigioniera Cassandra, chiedendo alla moglie di dare il benvenuto anche alla sua concubina.
Quando il re calca le sacre porpore, un altro flusso di opulente immagini sgorga dalla bocca di Clitennestra, e il suo discorso si fa suggestivo nel descrivere i pericoli dell’abbondanza.

III stasimo (vv. 975- 1034)

Ora la scena è vuota, il tema dello stasimo è la paura, che ha messo in fuga la speranza, e si esprime nel linguaggio di una profezia: nonostante il felice ritorno del suo re, il Coro è agitato sempre più da pensieri di imminente catastrofe.

IV episodio (vv.1035-1330)

Clitennestra riappare sulla scena e “invita” Cassandra ad entrare, poi, non volendo intrattenersi con una schiava – così dice – esce nuovamente di scena.
Cassandra non dà nessuna risposta, è assorta nei suoi pensieri, nelle sue visioni: la seconda vittima, la profetessa, conosce già il destino che la attende.
Dopo una lunga pausa si ode un gemito. E’ Cassandra che invoca Apollo. Poi, nel delirante empito della profezia, narra dei figli di Tieste massacrati tanto tempo prima, vede il delitto che si sta tramando nella casa, ode le Erinni ululare di gioia e le vede danzare sul tetto; e infine, con acuto dolore, piange sulla propria morte e sulla fine della casa di Priamo.
Quando esce dallo stato di ipnosi, Cassandra interpreta il canto delle Erinni, le furie vendicatrici: è il delitto di Atreo, padre di Agamennone, che con l’inganno aveva imbandito al fratello Tieste un banchetto con le carni dei suoi figli. Dopo aver raccontato di come avesse ricevuto da Apollo il dono della profezia, Cassandra ricade in trance, vede i figli di Tieste che le appaiono davanti agli occhi: è questo il delitto di cui Egisto (il figlio sopravvissuto di Tieste) vuole si sconti la pena.
Poi la profetessa annuncia ai vecchi Argivi l’imminente morte di Agamennone, la propria identica sorte, e presagisce il ritorno a casa dell’esule, di Oreste vendicatore.
Le sue ultime parole sono un appassionato lamento per il proprio destino e per quello di Agamennone, lei prigioniera e lui conquistatore, lei schiava e lui re, accomunati dalla stessa morte. Adesso Cassandra getta a terra le bende e il bastone profetico, saluta per l’ultima volta la luce del sole.
Il discorso di Cassandra, insieme ai primi due lunghi canti corali, fa luce sulle violenze perpetrate nelle casa degli Atridi, illumina i nessi di causa ed effetto che presiedono a questa catena di delitti efferati: ora il delitto compiuto da Clitennestra appare in rapporto con il passato e con il futuro, la tragedia è giunta al momento massimo di tensione drammatica.

Intermezzo corale (vv.1331-1342)

A questa catena di omicidi ed espiazioni fa riferimento un intermezzo corale che, con la sua brevità, crea un effetto di accelerazione del tempo, man mano che ci si approssima alla crisi. Al termine del canto, quando i vecchi argivi si accostano alla reggia, si è già creata la sensazione che al loro entrare nel palazzo si troveranno di fronte al terribile spettacolo.

Esodo (vv.1343-1673)

Si odono urla dall’interno della reggia. Le porte della scena si spalancano, offrendo la visione dei cadaveri di Agamennone e Cassandra stesi sulle porpore chiazzate di sangue, mentre Clitennestra è in piedi accanto a loro. Con voce esultante la donna si fa messaggera in prima persona del delitto perpetrato, dando finalmente libero sfogo al suo rancore. L’orrore dei vecchi si trasforma progressivamente in dolore.
Ora il personaggio di Clitennestra ci appare in piena luce. Nel corso di dieci anni l’amore per la primogenita Ifigenia si è trasformato in odio per l’uomo che l’ha sacrificata. Alla gelosia che le suscitava Cassandra e agli amori illeciti con Egisto fa solo un rapido accenno. La morte di Ifigenia campeggia con tutta la sua spietatezza e fa di Clitennestra un demone vendicatore. Non minacci il Coro, continua la regina, il bando o la lapidazione; lei non teme nulla e saprà resistergli: ciò che ha compiuto è un atto di giustizia.

Il Coro piange ora la misera sorte del suo re e annuncia nuove vicende di vendetta e di sangue. Questo canto corale che chiude l’Agamennone, introduce la seconda tragedia della trilogia, le Coefore.

Ultimo a entrare in scena è Egisto: per lui la morte di Agamennone è la vendetta della macabra cena di Tieste, suo padre. Se Clitennestra ha una forza di carattere e di propositi veramente “maschile” (sin dall’inizio della tragedia il suo è definito un cuore virile), Egisto è l’opposto, è colui che ha tramato nell’ombra la strage senza aver avuto il coraggio di portarla ad effetto. Per questo il Coro gli si rivolta contro, lo minaccia, sta per aggredirlo.
Ancora una volta interviene Clitennestra, esortando i vecchi argivi ad entrare nelle proprie case: da questo momento in poi – afferma – sarà lei a regnare su Argo insieme ad Egisto.

La tragedia si chiude lasciando nella mente del lettore-spettatore una sequenza di immagini: la rete da caccia con cui Clitennestra ha avvolto il re prima di ucciderlo, la bipenne assassina, i tappeti di porpora, le due aquile che agguantano la lepre gravida.
Ma, oltre a quelle del delitto efferato, nell’Agamennone dominano immagini minori di straordinaria suggestione: il sole e la luna, le stelle e le nevi dell’inverno, il mare con le sue inesauribili ricchezze, il grano che germoglia, l’uva che matura, il raccolto e la vendemmia, le fiaccole che risplendono nell’oscurità e si affievoliscono all’alba…
E il fatto che tutto il fastoso spettacolo della natura sia concepito come sfondo una sanguinario conflitto tra esseri umani non fa, per contrasto, che amplificarne la spietatezza.

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